Montecarlo. Una pista favolosa, emblema simbolo dell'eroismo, della resistenza, della concentrazione dei piloti, dei grandi campioni. Questa è Monaco, la storia anacronistica della Formula 1 dove è andato di scena il desiderio di epicità, di giudizio dei grandi nomi 2019. Di Niki Lauda. Leggenda immortale anche nei caschi dei primi due del podio. I campioni sommi di questa era.
Teste di casco. Quella di Sebastian Vettel, a ricordare quell'uomo quando al cospetto di Maranello, lì dove si consegnò alla leggenda. Quella di Lewis Hamilton, a ricordare lo stesso uomo che al cospetto di Woking si ratificò all'immortalità. Il minimo tributo che doveva essere portato dai grandissimi dell'oggi, verso quel visionario pilota di nome Andreas Nikolaus Lauda, per tutti Niki.
Sempre con uno sguardo rivolto al domani, come aveva insegnato alle generazioni postume di campioni quel viennese, anche definito "stronzo", da sotto il cappello, le lacrime, da Arturo Merzario. Uno degli angeli della Nordschleife. Il testimone di un'impresa epica, di resurrezione, di ritorno al futuro avente come sommo artefice quel Niki lì, pieno di sprezzo per un dramma fisico da sublimare in tutt'altro.
Come Max Verstappen e Charles Leclerc, facce della nuova medaglia fresca di conio, i prossimi Re, la nuova leva di maschi dominanti per questa Formula 1 controversa. Apparentemente monca di popolane stelle del volante, alle prese con un Lord inglese proiettato al misticismo ed allo "showmanismo", con un ermetico tedesco propenso sovente all'uso della lingua italiana, mai veramente amato anche solo per le sue più sincere doti. Umanità e umiltà.
Un po' come è prassi per la donna, l'essere per indole più competitivo. L'ammaliata dallo "stronzo", dall'irresistibile playboy, poco importa se vincolato nella casa del Signore a mezzo fede nuziale. Istinto inconscio di mire espansionistiche, ebrezza della vittoria, cupidigia dell'esclusività, regale oggetto del desiderio, perfetta incarnazione di un sentimento proprio dei giovanissimi appassionati di F1, adepti dell'olandese volante e dell'amico di Jules.
Bianchi, l'indimenticato preposto della Ferrari di qualche anno addietro. Anche lui presente su una testa di casco, per metà coabitata con un certo Hervé Leclerc, il papà dell'amico Charles. Un riflesso condizionato, quella palpebra destra del pilota #16 deve essersi smossa nel più classico dei gesti oculari, in un occhiolino a testimonianza dell'insegnamento di Jules. Precursore alla Rascasse di cotanto pelo da sorpasso.
Non fosse che la Rascasse una sola volta concede il raggiro, quella spirituale comunella ha cessato di sorprenderla qualche tornata successiva. Una spallata statica di quella rossa, curva barriera d'uscita, tanto per mettere in chiaro la faccenda con Leclerc e la sua SF90. A schiacciare un imperdonabile eccesso di confidenza, come a proferire imperativamente "Ragazzo, qui comando io, decido il se e il quando!".
Un po' come è prassi per la donna, l'essere per indole più competitivo. L'ammaliata dallo "stronzo", dall'irresistibile playboy, poco importa se vincolato nella casa del Signore a mezzo fede nuziale. Istinto inconscio di mire espansionistiche, ebrezza della vittoria, cupidigia dell'esclusività, regale oggetto del desiderio, perfetta incarnazione di un sentimento proprio dei giovanissimi appassionati di F1, adepti dell'olandese volante e dell'amico di Jules.
Bianchi, l'indimenticato preposto della Ferrari di qualche anno addietro. Anche lui presente su una testa di casco, per metà coabitata con un certo Hervé Leclerc, il papà dell'amico Charles. Un riflesso condizionato, quella palpebra destra del pilota #16 deve essersi smossa nel più classico dei gesti oculari, in un occhiolino a testimonianza dell'insegnamento di Jules. Precursore alla Rascasse di cotanto pelo da sorpasso.
Non fosse che la Rascasse una sola volta concede il raggiro, quella spirituale comunella ha cessato di sorprenderla qualche tornata successiva. Una spallata statica di quella rossa, curva barriera d'uscita, tanto per mettere in chiaro la faccenda con Leclerc e la sua SF90. A schiacciare un imperdonabile eccesso di confidenza, come a proferire imperativamente "Ragazzo, qui comando io, decido il se e il quando!".
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Una sorta di macumba pistaiola facente il paio con quella di Daniel Ricciardo, ultimo vincitore Red Bull a Montecarlo. Per una RB15 #33 pressoché perfetta per tutto il weekend in pista, oltre il penalizzato episodio pit-lane. Ugualmente lì, quel gladiatore di nome Max, a penare in scia alla Mercedes #44 per oltre cinquanta giri nonostante la sentenza di condanna ai piedi di un meritatissimo podio. Dilaniato tra l'indole da enfant prodige e il raziocinio, a contenimento della sua stregoneria da sorpasso, piegata nell'orgoglio dal duro culo di quella W10 e del suo pilota.
Lauda, oramai in paradiso, a guardare la corsa magari con James Hunt, magnanimo nel lascito di un suo ultimo dono a quei due uomini legati da un laccio esilissimo alla sua dottrina. I suoi ultimi pronipoti da pista, aggrappati alla ragioneria, alla sagacia del saper attendere il propizio, sostenuti dall'esperienza di vittorie e mondiali. A proteggersi dalla fame del nuovo che deve avanzare.