È ancora Gilles Villeneuve a simboleggiare la misura in F1 di uno status che vada al di là dei risultati, dei numeri. Un “pilota” da sei GP vinti, una miseria se si pensa ai record, ai 91 successi di Schumacher e a quelli sempre più numerosi di Hamilton. Titoli: zero. Ma come? Ma allora perché? Già, perché. Non ha più neanche il sapore della domanda. È più una parola bisbigliata sottovoce, una rassegnazione statistica, di fronte al talento e alla capacità, forse sovrannaturale, di colpire al cuore.
Di gare eccezionali, quel canadese volante ne ha corse tante, spesso con vetture ben al di sotto della concorrenza: i cosiddetti “paracarri”, macchine per nulla brillanti, destinate a restare a metà schieramento quando governate da buoni piloti, o anche da velocisti in grado di ben impressionare. Ma quella di Gilles non era solo una “buona impressione”. Si parlava, e si parla ancora, di febbre.
È qualcosa di irrazionale: il tifo, l’amore, la passione rossa, che va al di là della prestazione dell’uomo che guida una macchina e lotta con essa e attraverso essa. Parliamo di un uomo che è riuscito a tenere testa, in popolarità e magia, al carisma della Ferrari stessa. Perché lui, Gilles, a un certo punto della sua carriera, della sua vita, non era più solo un pilota Ferrari. Lui era la Ferrari.
Di Villeneuve ricordiamo ancora oggi le imprese che di umano hanno ben poco. Asciutto, bagnato, macchina a pezzi, in qualunque situazione.
La cosa che faceva già all’epoca un certo effetto disumano era la capacità a tratti incomprensibile di lottare fino al limite per un secondo posto. Perché il più delle volte, parliamoci chiaro, quella Ferrari guidata da Gilles non era neanche lontanamente una vettura da titolo. Eppure…
Già, eppure. Ancora una parola sospesa, come la carriera d’un pilota che, venuto dalla neve, dalle motoslitte, da un mondo così diverso da quello tecnologico della F1, si è imposto col talento, andando oltre le possibilità del razionale.
Di fronte a questa sua capacità di superare il limite, quasi avesse un superpotere sotto ai guanti, conta poco, forse nulla, il numero dei titoli che avrebbe potuto vincere se non ci avesse lasciato quel maledetto 8 maggio del 1982.
Nessun pilota è riuscito a lasciare un’eredità tanto potente in confronto al numero relativamente esiguo di successi. Nessuno a parte quel piccolo canadese dall’aria trasognata e un po’ tormentata.
E i numeri? E i titoli?
Già, i numeri.
Roba di poco conto, per chi ha potuto conoscere la Ferrari numero 27.
Cose dell’altro mondo, quelle messe in scena da quella stessa Ferrari. Cose mai viste prima. Cose mai viste dopo. Cose forse mai esistite, troppo belle per essere vere.
È qualcosa di irrazionale: il tifo, l’amore, la passione rossa, che va al di là della prestazione dell’uomo che guida una macchina e lotta con essa e attraverso essa. Parliamo di un uomo che è riuscito a tenere testa, in popolarità e magia, al carisma della Ferrari stessa. Perché lui, Gilles, a un certo punto della sua carriera, della sua vita, non era più solo un pilota Ferrari. Lui era la Ferrari.
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Già, eppure. Ancora una parola sospesa, come la carriera d’un pilota che, venuto dalla neve, dalle motoslitte, da un mondo così diverso da quello tecnologico della F1, si è imposto col talento, andando oltre le possibilità del razionale.
Di fronte a questa sua capacità di superare il limite, quasi avesse un superpotere sotto ai guanti, conta poco, forse nulla, il numero dei titoli che avrebbe potuto vincere se non ci avesse lasciato quel maledetto 8 maggio del 1982.
Nessun pilota è riuscito a lasciare un’eredità tanto potente in confronto al numero relativamente esiguo di successi. Nessuno a parte quel piccolo canadese dall’aria trasognata e un po’ tormentata.
E i numeri? E i titoli?
Già, i numeri.
Roba di poco conto, per chi ha potuto conoscere la Ferrari numero 27.
Cose dell’altro mondo, quelle messe in scena da quella stessa Ferrari. Cose mai viste prima. Cose mai viste dopo. Cose forse mai esistite, troppo belle per essere vere.