La storia non è una linea retta, procede spesso per sentieri intricati e imprevedibili. I vincitori si trasformano anche in vinti e, secondo la stessa esaltante e scioccante teoria antimaterica, gli schiavi possono elevarsi a trionfanti padroni. Nello sport come nella vita. Anche in F1, la cui storia è ricca di saliscendi epici, vittorie sorprendenti e cadute nefaste. Come per la McLaren, dominatrice di altri, bei tempi, forse la scuderia più emblematica in questa spietata ma inevitabile evoluzione.
E
ra il tempo della McLaren, una delle scuderie brillanti, capace di esaltare, allettare grandissimi campioni. Specialmente per le accoppiate fratricide, simbolo principe della Woking che fu, un regno coraggioso in cui contava la possenza globale del team, piuttosto che specifiche individualità al volante. Una vera e propria "passerella", talvolta trampolino di lancio, di stelle affermate e presunte della F1.
Prima il dramma Senna-Prost e poi l’amichevole quanto coriacea squadra Senna-Berger. Ma c’era anche la McLaren-Mercedes con i suoi campioni del mondo (o futuri tali) quali Hakkinen, Raikkonen, Hamilton, Alonso e Button, tre dei quali portati alla ribalta proprio da quel cagnaccio di Ron Dennis, uomo simbolo della scuderia per molti anni. Poi è tornata la McLaren-Honda e qualcosa non ha funzionato rispetto al binomio storico, nonostante alla guida vi fossero ancora un saggio Jenson Button e un micidiale Fernando Alonso – micidiale in pista ma anche ai microfoni, con le sue dichiarazioni non propriamente filo-nipponiche. Infine è arrivata la McLaren-Renault, team inedito dal punto di vista motoristico, senz’altro un gradino sopra la precedente “esperienza bis” con i giapponesi. Ma siamo ancora lontani dai fuochi di un tempo. La ragione del crollo? Quesito intrigante, forse fondamentale, utile senz’altro a capire non solo la crisi di Woking, ma anche quella, davvero terrificante, dei cugini della Williams.
Capo d'accusa numero uno: il propulsore. È chiaro che, al rientro dopo un cambio regolamentare sostanzioso come quello avvenuto tra il 2013 e il 2014, Honda non poteva essere pronta per il miracolo, né tantomeno per le improvvisazioni tecniche che, parliamoci chiaro, sono pressoché impossibili in una F1 così evoluta e complessa. Tuttavia la Honda ne esce scagionata, dato che in Red Bull ha apportato aria fresca (e non fumo dovuto ai cedimenti) e ha addirittura avvicinato (di nuovo) le prestazioni dei “bibitari” a quelle del Cavallino.
Prima il dramma Senna-Prost e poi l’amichevole quanto coriacea squadra Senna-Berger. Ma c’era anche la McLaren-Mercedes con i suoi campioni del mondo (o futuri tali) quali Hakkinen, Raikkonen, Hamilton, Alonso e Button, tre dei quali portati alla ribalta proprio da quel cagnaccio di Ron Dennis, uomo simbolo della scuderia per molti anni. Poi è tornata la McLaren-Honda e qualcosa non ha funzionato rispetto al binomio storico, nonostante alla guida vi fossero ancora un saggio Jenson Button e un micidiale Fernando Alonso – micidiale in pista ma anche ai microfoni, con le sue dichiarazioni non propriamente filo-nipponiche. Infine è arrivata la McLaren-Renault, team inedito dal punto di vista motoristico, senz’altro un gradino sopra la precedente “esperienza bis” con i giapponesi. Ma siamo ancora lontani dai fuochi di un tempo. La ragione del crollo? Quesito intrigante, forse fondamentale, utile senz’altro a capire non solo la crisi di Woking, ma anche quella, davvero terrificante, dei cugini della Williams.
Capo d'accusa numero uno: il propulsore. È chiaro che, al rientro dopo un cambio regolamentare sostanzioso come quello avvenuto tra il 2013 e il 2014, Honda non poteva essere pronta per il miracolo, né tantomeno per le improvvisazioni tecniche che, parliamoci chiaro, sono pressoché impossibili in una F1 così evoluta e complessa. Tuttavia la Honda ne esce scagionata, dato che in Red Bull ha apportato aria fresca (e non fumo dovuto ai cedimenti) e ha addirittura avvicinato (di nuovo) le prestazioni dei “bibitari” a quelle del Cavallino.
Capo d'accusa numero due: il telaio. Qui tocchiamo un tasto dolente. Perché anche con il nuovo motore francese, la McLaren non si è trasformata da brutto anatroccolo a cigno. Idem per la Williams, che continua a usufruire di potentissimi motori Mercedes… dall’ultima fila. Un paradosso: il team fanalino di coda è motorizzato da chi domina i mondiali da cinque anni.
Capo d'accusa numero tre: il budget. Già, perché se la questione del propulsore è più una “scelta” che una “spesa”, dal momento che i costruttori quali Renault e Mercedes hanno bisogno di “testare” i motori da un lato, mentre dall’altro new entry quali Honda hanno bisogno di un team, per così dire, d’appoggio, la questione del telaio è tutta (o quasi) una questione economica. Un buon telaio non si sceglie, bisogna inventarlo, così come bisogna farsi venire idee nuove, originali, spiazzanti, anche azzardate purché funzionali al ritorno sulla scena che conta. Vent’anni fa era più facile: i grandi costruttori – Ferrari esclusa – si occupavano soltanto dei propulsori, di solito legandosi in un geloso ed esclusivo rapporto con un solo team di punta, relegando le piccole squadre a “ripiegare” su dei motori Cosworth non esaltanti ma comunque sufficientemente validi. E oggi? Oggi la situazione è diametralmente opposta: i costruttori mettono in pista le loro macchine (Mercedes, Ferrari, Renault…) offrendo poi i loro motori a diversi team, tra i quali dovrebbero, in teoria, spiccare quelli storici come McLaren e Williams, squadre “indipendenti” che non possono permettersi lo stesso peso d’investimento di Stoccarda o Maranello.
Il risultato lo conosciamo bene: i team che una volta dominavano, oggi sono in crisi. E fatta salva l’eccezione della Red Bull, nessuna squadra riesce lontanamente ad avvicinarsi, neppure dopo anni, alle prestazioni di Mercedes e Ferrari. Certo, ci sono una Haas e una Racing Point che, grazie ai capitali investiti, riescono a fabbricare ancora vetture decenti. Sono proprio queste nuove squadra (nuove o relativamente recenti) che rendono ancora più complicata la risalita di McLaren e Williams, i cui fondi restano pochi, “di tasca propria” o quasi, in ogni caso insufficienti a rimettere in sesto i vari comparti: quello tecnico, quello teorico e quello dei piloti; mercato, quest’ultimo, dove vige più che mai un’antica regola di marketing: lo sponsor.
Capo d'accusa numero tre: il budget. Già, perché se la questione del propulsore è più una “scelta” che una “spesa”, dal momento che i costruttori quali Renault e Mercedes hanno bisogno di “testare” i motori da un lato, mentre dall’altro new entry quali Honda hanno bisogno di un team, per così dire, d’appoggio, la questione del telaio è tutta (o quasi) una questione economica. Un buon telaio non si sceglie, bisogna inventarlo, così come bisogna farsi venire idee nuove, originali, spiazzanti, anche azzardate purché funzionali al ritorno sulla scena che conta. Vent’anni fa era più facile: i grandi costruttori – Ferrari esclusa – si occupavano soltanto dei propulsori, di solito legandosi in un geloso ed esclusivo rapporto con un solo team di punta, relegando le piccole squadre a “ripiegare” su dei motori Cosworth non esaltanti ma comunque sufficientemente validi. E oggi? Oggi la situazione è diametralmente opposta: i costruttori mettono in pista le loro macchine (Mercedes, Ferrari, Renault…) offrendo poi i loro motori a diversi team, tra i quali dovrebbero, in teoria, spiccare quelli storici come McLaren e Williams, squadre “indipendenti” che non possono permettersi lo stesso peso d’investimento di Stoccarda o Maranello.
Il risultato lo conosciamo bene: i team che una volta dominavano, oggi sono in crisi. E fatta salva l’eccezione della Red Bull, nessuna squadra riesce lontanamente ad avvicinarsi, neppure dopo anni, alle prestazioni di Mercedes e Ferrari. Certo, ci sono una Haas e una Racing Point che, grazie ai capitali investiti, riescono a fabbricare ancora vetture decenti. Sono proprio queste nuove squadra (nuove o relativamente recenti) che rendono ancora più complicata la risalita di McLaren e Williams, i cui fondi restano pochi, “di tasca propria” o quasi, in ogni caso insufficienti a rimettere in sesto i vari comparti: quello tecnico, quello teorico e quello dei piloti; mercato, quest’ultimo, dove vige più che mai un’antica regola di marketing: lo sponsor.
Capo d'accusa numero quattro: la gestione. Due parole tocca spenderle, non di più, ma è necessario farlo. Da fuori è facile, in pochissimi tra noi sarebbero capaci di gestire un team di F1. Questo bisogna dirlo. Ma bisogna anche dire che di tempo, in questi anni, sia a Woking che a Grove, ne hanno avuto parecchio per raddrizzare il tiro. Con risultati, onestamente, davvero poco soddisfacenti.
Il futuro? Considerando che la Renault ci ha abituati a trionfi spudorati dopo pochissimi anni dal rientro nel circus – come motorista o come costruttore, è sempre andata così – e tenendo conto dell’indubbia organizzazione pratica e della potenza sportiva della Red Bull… di spazio per McLaren e Williams se ne vede ben poco. Anche perché, differenza del passato, manca un motorista di riferimento. Honda poteva esserlo per la McLaren, ma il piano è fallito. La Williams non ha idee né tantomeno soldi per azzardare ancora.
Un destino già scritto? L’illusione di credere in qualcosa di diverso, in questo caso, è molto attraente. Certa è la fine di un’era in cui una Benetton o una Jordan potevano vestire i panni di agguerrite outsider, così come l’epoca gagliarda e coinvolgente in cui i motoristi erano dediti, in maniera piacevolmente ingombrante, a un solo team, con tanto di calca umana bicolore ai box.
Claudio Santoro.
Follow @redf1gp
Il futuro? Considerando che la Renault ci ha abituati a trionfi spudorati dopo pochissimi anni dal rientro nel circus – come motorista o come costruttore, è sempre andata così – e tenendo conto dell’indubbia organizzazione pratica e della potenza sportiva della Red Bull… di spazio per McLaren e Williams se ne vede ben poco. Anche perché, differenza del passato, manca un motorista di riferimento. Honda poteva esserlo per la McLaren, ma il piano è fallito. La Williams non ha idee né tantomeno soldi per azzardare ancora.
Un destino già scritto? L’illusione di credere in qualcosa di diverso, in questo caso, è molto attraente. Certa è la fine di un’era in cui una Benetton o una Jordan potevano vestire i panni di agguerrite outsider, così come l’epoca gagliarda e coinvolgente in cui i motoristi erano dediti, in maniera piacevolmente ingombrante, a un solo team, con tanto di calca umana bicolore ai box.
Claudio Santoro.
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