Budapest. Una sfida tra i perdenti, nella fredda apparenza delle nuvolose atmosfere di Pest. Un teatro di colori troppo deboli per sfuggire al predominio black della Mercedes edizione 2020. Questo Ungheria GP si rifà a vecchi modelli del motorsport dove il vincitore non è solo quello che sale sul gradino più alto del podio. A spuntarla in una sfida forse più importante, dal gusto pionieristico, è l’olandese volante, Max Verstappen. Lo sguardo di Charles Leclerc punta allo stesso futuro...
Ci sono guerre motoristiche che valgono più di un mondiale e che lasciano pregustare un’era. Quella che stiamo vivendo è una belligeranza che si consuma, se non dietro le quinte, quantomeno dietro la coltre nebulosa, a tinta nera, della prima fila: è la rivalità tra l’olandese in forza alla Red Bull e il monegasco punta di diamante della Ferrari. Una sfida al momento impari, ma eternamente necessaria.
All’appuntamento numero uno, in Austria, Charles ha dimostrato di non aver perso quella particolare tendenza alla follia che ti concede il lusso di distruggere l’avversario sul campo, di lasciare un’impronta al di là della gara, una luce nel tunnel dei ricordi, il segno del talento sulla pellicola degli highlights. Un fermento durato poco in un contesto che restituisce, almeno per ora, lo scettro di “predestinato” a Max.
Una qualifica grigia, un giro di posizionamento fantozziano, forse – benché assimilabile a erroracci compiuti in passato da Montoya, addirittura da Alain Prost – e una gara iniziata regolarmente solo grazie a un intervento provvidenziale di quei diavolacci dei meccanici Red Bull. Una corsa in salita, per la giovane tigre olandese; quel Max protagonista, un anno fa, proprio tra le curve dell’Hungaroring, di una delle più belle sfide alla corona di Lewis.
È a questo punto, nel più emblematico dei momenti della F1, laddove pensieri e parole lasciano inevitabilmente il posto a testa e piede, alla freddezza del driver, alla sublimazione della mestizia, che la Red Bull numero 33 dà il via a un balletto sensazionale, capace di impressionare i puristi e di rimarcare quella che, ad oggi, è la vittoria di Max su Charles nella sfida al futuro.
Il secondo posto, rimasto incastrato nelle fauci dell’olandese, con buona pace di un Bottas bravo ma non all’altezza del furore nemico, è un gioiello che varca i confini di quella landa di outsider che pare essere l’unica abitabile al momento, e proietta Verstappen in una dimensione limbare, di difficile interpretazione ma d’indubbio fascino: la minaccia più concreta al trono del più forte.
È a questo punto, nel più emblematico dei momenti della F1, laddove pensieri e parole lasciano inevitabilmente il posto a testa e piede, alla freddezza del driver, alla sublimazione della mestizia, che la Red Bull numero 33 dà il via a un balletto sensazionale, capace di impressionare i puristi e di rimarcare quella che, ad oggi, è la vittoria di Max su Charles nella sfida al futuro.
Il secondo posto, rimasto incastrato nelle fauci dell’olandese, con buona pace di un Bottas bravo ma non all’altezza del furore nemico, è un gioiello che varca i confini di quella landa di outsider che pare essere l’unica abitabile al momento, e proietta Verstappen in una dimensione limbare, di difficile interpretazione ma d’indubbio fascino: la minaccia più concreta al trono del più forte.
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Una prestazione che smonta le dinamiche consuete, che si svincola dai rozzi valori tecnici messi in campo. Un’impresa che segue una sua logica, artistica e mentale. Max non ha paura, lo si evince dall’assoluta mancanza di riguardi nei confronti del rischio e nella ferocia con cui tenta ogni volta di restare lì davanti, costi quel che costi, con tecnica e talento al suo servizio.
Davanti a Leclerc, soprattutto. Ma qual è il ruolo dell’alfiere Ferrari in questo exercice de style, opera di Max ma frutto di un meticoloso lavoro messo in moto dai tipi di Milton Keynes? Crudelmente, si potrebbe pensare a un Charles rimasto indietro, più immaturo, incompleto sul piano della costanza, meno spietato, giocondo ma inefficace.
Davanti a Leclerc, soprattutto. Ma qual è il ruolo dell’alfiere Ferrari in questo exercice de style, opera di Max ma frutto di un meticoloso lavoro messo in moto dai tipi di Milton Keynes? Crudelmente, si potrebbe pensare a un Charles rimasto indietro, più immaturo, incompleto sul piano della costanza, meno spietato, giocondo ma inefficace.
Tutta colpa di Charles? Forse no. Victor Hugo diceva che l’inferno dei poveri è fatto col paradiso dei ricchi: dalla rovina Ferrari nasce la momentanea ribalta della Red Bull e i piloti, per quanto egotisti, restano driver dipendenti dai mezzi meccanici; il loro destino rimane storicamente impigliato nelle complesse problematiche di tali mezzi, e nelle politiche di chi porta avanti la baracca. Ma questo non può calmare gli animi di una sfida che vale la fondazione di una nuova F1: la guerra tra i rookie che non sono più rookie, che non si potranno mai più sentire tali, specie dopo aver assaggiato il sapore della vittoria.