Austin. Occasioni per correre in libertà: un Kimi che fa scintille come ai vecchi tempi, un Hamilton che non molla e rischia tanto pur di portare a casa il quinto titolo con tre gare di anticipo e un Verstappen di troppo a ostacolarlo che raggiunge il secondo gradino del podio dopo essere partito diciottesimo. Questo e molto altro sull'asfalto americano. Il circus delle meraviglie è servito dal Texas.
È bastato poco alla Formula 1 per (ri)scoprirsi sport dello spettacolo. Un’attrazione selvatica messa in scena da superuomini il cui DNA è legato a quello di belve feroci i cui istinti atavici dominano ancora le loro azioni. È bastata la “libertà”, parola-simbolo dell’America che ha ospitato il Gran Premio ad Austin domenica scorsa.
Libertà dalla lotta per il titolo piloti. Per Vettel il mondiale è ormai un’ombra con una bandiera britannica a fare da sfondo; per Hamilton, nonostante il “ritardo”, la faccenda iridata resta una pura formalità. Libertà di azzardare, di rischiare a causa e per mezzo dei sentimenti. La voglia di vendicarsi della sfortuna (Sebastian), la voglia di laurearsi campione del mondo in Texas (Lewis), la voglia di rimontare e diventare leggenda ancor prima di vincere un mondiale (Max) e, sopra quelle degli altri, la voglia di lasciare un ulteriore sigillo, un segno, il marchio della bestia in un gran premio che inizia ad acquisire una dignità storica propria, ad allestire una tradizione: la vittoria di Kimi esattamente undici anni dopo quel trionfo a Interlagos che gli consegnò il mondiale 2007, l’ultimo titolo piloti acciuffato da Maranello.
Voglie, desideri… oppure bisogni: istinti animali, viscerali, degni di un circus che quando si lascia andare a lotte aggressive come quelle messe in pista sul circuito di Austin, ritrova se stesso. Non i “bei tempi andati”, noiosi anche quelli a volte, ma i tempi ideali: quelli in cui i piloti danno spettacolo, mostrano i denti, si inseguono e fuggono recitando di volta in volta la parte del cacciatore feroce e della preda astuta. Si mordono, si feriscono, si aggrediscono senza esitazioni; resistono anche, senza alcun timore reverenziale.
Di “numeri” – non quelli freddi, buoni per le statistiche, ma quelli da circo delle meraviglie – i piloti ne hanno portati in scena parecchi, domenica. Ha iniziato Vettel il quale, sfortuna a parte, ha il merito di aver ingaggiato un duello con lo staccatore più forte al mondo: Daniel Ricciardo. Ha proseguito Raikkonen con una finta entrata ai box degna di un maestro: spettacolo puro, ma anche strategia, sfida personale, umana e sportiva contro un vecchio rivale.
Ha insistito Hamilton con una rimonta da urlo, divorando metro dopo metro il distacco dalla vetta che, causa una strategia non perfetta in casa Mercedes, si è trovato a dover “gestire”. Ma quale gestire! Il titolo era lì, a un soffio, un soffio chiamato Max Verstappen: un altro che di numeri, domenica, ne ha fatti parecchi, da diciottesimo a secondo, vicinissimo alla vittoria. Un’impresa quasi leggendaria; un risultato che, in ogni caso, ribadisce la sua forza, manifestata magistralmente con la resistenza proprio ai danni di Hamilton.
Di “numeri” – non quelli freddi, buoni per le statistiche, ma quelli da circo delle meraviglie – i piloti ne hanno portati in scena parecchi, domenica. Ha iniziato Vettel il quale, sfortuna a parte, ha il merito di aver ingaggiato un duello con lo staccatore più forte al mondo: Daniel Ricciardo. Ha proseguito Raikkonen con una finta entrata ai box degna di un maestro: spettacolo puro, ma anche strategia, sfida personale, umana e sportiva contro un vecchio rivale.
Ha insistito Hamilton con una rimonta da urlo, divorando metro dopo metro il distacco dalla vetta che, causa una strategia non perfetta in casa Mercedes, si è trovato a dover “gestire”. Ma quale gestire! Il titolo era lì, a un soffio, un soffio chiamato Max Verstappen: un altro che di numeri, domenica, ne ha fatti parecchi, da diciottesimo a secondo, vicinissimo alla vittoria. Un’impresa quasi leggendaria; un risultato che, in ogni caso, ribadisce la sua forza, manifestata magistralmente con la resistenza proprio ai danni di Hamilton.
La vittoria di Kimi, dulcis in fundo. Un trionfo strategico, di conservazione naturale che appartiene a una specie che, presto o tardi, è destinata a scomparire dalla F1: quella dei piloti più anziani, che a volte sembrano bolliti, buoni da rispedire a casa e alla svelta; quelli che, quando poi si tratta di tirar fuori un coniglio dal cilindro, ne tirano fuori anche due.
Un contributo essenziale allo spettacolo di domenica l’ha dato anche – bisogna dirlo – la ritrovata competitività della Ferrari, che dopo una “pausa prestazionale” di qualche gara – una pausa decisiva, imperdonabile – è tornata là davanti, a dettare il passo, a sfiorare la pole, a giocare la strategia giusta, capace di sparare il colpo decisivo.
Un contributo essenziale allo spettacolo di domenica l’ha dato anche – bisogna dirlo – la ritrovata competitività della Ferrari, che dopo una “pausa prestazionale” di qualche gara – una pausa decisiva, imperdonabile – è tornata là davanti, a dettare il passo, a sfiorare la pole, a giocare la strategia giusta, capace di sparare il colpo decisivo.
Un ritorno che lascia ben sperare per l’anno prossimo e che caccia via le ombre che nelle ultime settimane hanno ossessionato scettici e antiferraristi: la Rossa c’è, sebbene un altro titolo piloti sia andato perso. Forse si potrà lottare ancora per il costruttori. In ogni caso, il 2019 promette (ancora) una lotta alla pari. E di quelle destinate a restare negli annali di questo sport.